di Cosimo Coretti – Consigliere CONAF Coordinatore Dipartimento Sicurezza e Qualità Agroalimentare ed Ambientale e Enrico Antignati – Consigliere CONAF Coordinatore Dipartimento Politiche Comunitarie
La locuzione “sviluppo sostenibile” è ormai entrata nel lessico comune e costituisce la parola chiave che il legislatore adotta ai vari livelli di programmazione e pianificazione. Ma cosa significa sviluppo sostenibile?
Secondo la definizione contenuta nel rapporto Bruntland del 1987, “Sviluppo sostenibile è quello che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. In questa accezione, lo sviluppo sostenibile è caratterizzato da una visione di lungo periodo e soprattutto da un approccio olistico allo sviluppo economico, sociale ed ambientale che possa coinvolgere tutte le figure interessate nei vari processi o meccanismi produttivi, in quanto l’interesse ultimo deve essere la salvaguardia del Pianeta. Da quando è stato introdotto il concetto di sviluppo sostenibile (“Our Common Future” pubblicato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo), si è avviato un vivace dibattito internazionale che ha visto nella Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo di Rio nel 1992 uno dei maggiori eventi internazionali ad esso dedicati. Dal Summit della Terra di Rio scaturirono questi cinque documenti ufficiali: “Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo”, “Agenda 21” letteralmente le cose da fare nel 21esimo secolo per lo sviluppo sostenibile del pianeta, “Convenzione sulla diversità biologica” oggi “biodiversità” per la tutela e il mantenimento della diversità, “Principi sulla gestione sostenibile delle foreste” e “Convenzione sul cambiamento climatico”. Ancora oggi questi programmi strategici sono ben poco presenti, nei fatti, nelle politiche nazionali di tutto il mondo, dove spesso prevalgono interessi lobbistici che mirano esclusivamente al massimo del proprio profitto nel completo disinteresse della collettività. In questi ultimi anni, il nostro settore è stato coinvolto da un processo di regolamentazione a dir poco epocale ed in linea con i principi dello sviluppo sostenibile: per la prima volta si è voluto regolamentare un sistema di comportamenti legati all’uso talvolta indiscriminato dei prodotti fitosanitari, in agricoltura e non solo. Questa regolamentazione ha toccato diverse fasi della filiera del prodotto fitosanitario dall’utilizzazione, alla conservazione, alla vendita nonché alla consulenza fitoiatrica con il fine ultimo di garantire la salvaguardia dell’ambiente e la sicurezza alimentare, intesa come food safety. Principi, questi ultimi, sanciti dalla costituzione italiana e da quella europea. Occorre comunque ricordare che questo modo di fare produzione agricola, con maggior attenzione all’utilizzo del mezzo chimico, è già da diversi anni (circa un decennio) applicato dalla distribuzione organizzata per identificare e personalizzare i propri prodotti; alcuni “retailers” hanno addirittura condiviso e codificato sistemi di buona pratica agricola che oggi sono universalmente riconosciuti in tutto il mondo. Il ruolo del mercato, ancorché pressato dal consumatore sempre più attento, è stato in questo caso fondamentale nell’indirizzare la politica verso una legiferazione specifica rispondente ai principi della sostenibilità, che fosse in grado di garantire prodotti alimentari di “qualità” non solo in quanto in possesso di caratteristiche intrinseche di “qualità” (proprietà organolettiche e salubrità), ma anche in quanto ottenuti nel rispetto e salvaguardia dell’ambiente. Gli aspetti interessanti che emergono dalla direttiva sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari sono la riduzione dei rischi e degli impatti sulla salute umana, sull’ambiente e sulla biodiversità, la promozione dell’applicazione di sistemi di difesa integrata e di metodi alternativi non chimici. La difesa integrata, peraltro già obbligatoria dal 1° gennaio 2014, secondo la definizione della direttiva 128/2009 art. 3 comma 6 ripresa nell’art. 3 comma “m” del d.lgs 150/2012, richiede un’attenta considerazione di tutti i metodi di protezione fitosanitaria disponibili e conseguente integrazione di misure appropriate intese a scoraggiare lo sviluppo di popolazioni di organismi nocivi e che mantengono l’uso dei prodotti fitosanitari e altre forme d’intervento a livelli che siano giustificati in termini economici ed ecologici e che riducono o minimizzano i rischi per la salute umana e per l’ambiente. Sempre secondo la direttiva 128/2009 l’obiettivo prioritario della «difesa integrata» è la produzione di colture
sane con metodi che perturbino il meno possibile gli ecosistemi agricoli e che promuovano i meccanismi naturali di controllo fitosanitario.
L’adozione da parte delle aziende agricole di un tale sistema richiede, come precisato nella direttiva stessa all’art. 3 comma 3, la presenza di un consulente che per definizione è una persona che ha acquisito un’adeguata conoscenza e fornisce consulenza sulla difesa fitosanitaria e sull’impiego sicuro dei prodotti fitosanitari. Una persona che sappia indirizzare le scelte dell’agricoltore in un campo così sensibile e non scevro da rischi quale quello della difesa fitoiatrica. La direttiva delinea un quadro sicuramente innovativo in cui l’agricoltore è posto al centro di un sistema complesso che, in mancanza di politiche parallele indirizzate alla riorganizzazione aziendale in linea con le esigenze e le richieste del mercato, può trasformarsi in una condizione di estrema incertezza. Questo sistema può funzionare se all’agricoltore viene affiancato un consulente qualificato in grado di trasferire correttamente le informazioni alla produzione e recepire quelle provenienti dal mercato. C’è bisogno di un consulente tecnico di elevata professionalità, in possesso di una competenza specifica, che risponda ad un sistema in grado di fornire adeguate garanzie sia al produttore che al consumatore. Il recente decreto di adozione del PAN, così come anche il precedente d.lgs 150/2012, non ha dato le risposte che ci si aspettava, evitando non solo di introdurre i concetti di responsabilità, deontologia e di garanzia di quei principi, sopra menzionati, che sono oggi fortemente richiesti e auspicati dalla società civile, ma anche di esplicitare i contenuti dell’attività stessa del consulente fitoiatrico e di definirne il ruolo nell’ambito della gestione sostenibile dell’attività agricola Ciò è ancor più grave alla luce degli orientamenti della nuova PAC verso il 2020 in cui il ruolo del consulente è visto come strategico in quanto dovrebbe fornire supporto al trasferimento di conoscenze e innovazione nel settore agricolo e nelle zone rurali in generale, in modo da poter potenziare la redditività delle aziende agricole in tutte le regioni e la competitività dell’agricoltura in tutte le sue forma, promuovere tecnologie innovative e una gestione sostenibile delle foreste, l’organizzazione delle filiere agroalimentari, compresa la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli. In merito all’esercizio dell’attività di consulente in campo fitoiatrico giova ricordare che il vigente Ordinamento della professione di Dottore Agronomo e Dottore Forestale definito dalla legge 7 gennaio 1976, nº 3 (così come modificata dalla legge 10 febbraio 1992, n. 152) e dal D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328, individua in maniera espressa tra le competenze dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali (art.2 comma 1) le attività volte a valorizzare e gestire i processi produttivi agricoli, zootecnici e forestali, a tutelare l’ambiente e, in generale, le attività riguardanti il mondo rurale; inoltre sempre all’art.2 comma 1 lettera “g”, “i” e “o” recita rispettivamente che sono di competenza dei dottori agronomi e dei dottori forestali:
> l’accertamento di qualità e quantità delle produzioni agricole, zootecniche e forestali e delle relative industrie,anche in applicazione della normativa comunitaria, nazionale e regionale;
> i lavori e gli incarichi riguardanti la coltivazione delle piante, la difesa fitoiatrica, l’alimentazione e l’allevamento degli animali, nonchè la conservazione, il commercio,
l’utilizzazione e la trasformazione dei relativi prodotti;
> le analisi fisico-chimico-microbiologiche del suolo, dei mezzi di produzione e dei prodotti agricoli, zootecnici e forestali e le analisi, anche organolettiche, dei prodotti agro-industriali e l’interpretazione delle stesse.
L’esercizio delle attività sopra menzionate, spetta pertanto a coloro che abbiano conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione e siano iscritti all’albo a norma dell’art. 3 della legge 7 gennaio 1976, nº 3. Del resto anche il D.lgs 6 novembre 2007 n. 206 “Attuazione della direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali” disciplina il riconoscimento, per l’accesso alle professioni regolamentate ed il loro esercizio e il Decreto Legislativo 26 marzo 2010, n.59 di “Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”, all’art 45 prevede e puntualmente
disciplina l’iscrizione in albi per l’esercizio in Italia delle professioni regolamentate,
stabilendo che la relativa domanda “è presentata al Consiglio dell’ordine o al Collegio professionale competente e deve essere corredata dei documenti comprovanti il possesso dei requisiti stabiliti per ciascuna professione dal rispettivo ordinamento”.
Il D.lgs 14 agosto 2012, n. 150 prima, e il Decreto 22 gennaio 2014 poi, prevedono invece che per poter esercitare l’attività di “consulente” nell’ambito della difesa fitosanitaria a basso apporto di prodotti fitosanitari, indirizzata anche alle produzioni integrata e biologica, in altre parole per poter esercitare l’attività di “consulente” nell’ambito della “difesa fitoiatrica”, sia sufficiente l’ottenimento di un “Certificato di abilitazione alla consulenza” rilasciato dalle Regioni e dalle Province autonome a coloro che sono in possesso di diploma o laurea in discipline agrarie e forestali. I decreti sopra menzionati equiparano di fatto il dottore agronomo al laureato munito di attestazione di avvenuta frequentazione ad adeguato corso, creando un’evidente disparità e ponendo il “consulente” in una posizione di favore rispetto al dottore agronomo ledendo così il principio costituzionale di uguaglianza di fronte alla legge. Infatti se il consulente dottore agronomo in quanto iscritto risponde ad una serie di obblighi e responsabilità, peraltro rimarcati dalla recente riforma delle professioni e tendente al rafforzamento della tutela dell’interesse pubblico con innegabili collegamenti con la tutela della salute pubblica e dell’ambiente (principi costituzionali), il consulente diplomato o laureato e abilitato attraverso specifico corso risponderà esclusivamente a logiche di mercato e agli effetti negativi ad esso collegati in termini di tutela dell’interesse pubblico. Di fatto, oggi, questi provvedimenti legislativi autorizzano l’esercizio abusivo della nostra professione e risultano a nostro parere in contrasto con principi costituzionali di uguaglianza, di tutela della salute pubblica e dell’ambiente.