La biodiversità: bene comune per un nuovo modello innovativo di sviluppo delle comunità e per una scienza partecipata

indexdi Andrea Sisti, presidente CONAF

Introduco il mio contributo con un esempio di vita vissuta che rappresenta lo stato di salute del rapporto cittadino-istituzioni e conseguentemente dei rapporti etico-sociali del vivere comune. Mi trovavo a rappresentare un progetto di biomasse in una comunità locale con una numerosa partecipazione dei cittadini.Arrivati alle diverse spiegazioni si rappresentano gli interventi di integrazione del progetto rispetto alle esigenze della comunità; la prima ipotesi ed anche la più corretta dal punto di vista tecnico era quella di rendere disponibile l’acqua calda per una scuola ed un asilo: osservazione dei cittadini “ma quelle sono del Comune, risparmierebbe l’Amministrazione e a noi comunità non viene niente”.
Dopo questo incontro e soprattutto riflettendo su altri casi che ho sempre sottovalutato ho compreso con sgomento l’attuale rapporto tra le Istituzioni gestori e garanti della res pubblica ed i cittadini con le relative comunità. Le istituzioni come controparte e non come strumento di gestione della comunità con la percezione del res pubblica come proprietà altrui. Se questo tipo di sensibilità era manifesta nei confronti dello Stato, per ragioni storiche, per la non accettazione e comprensione del ruolo, mi sorprende enormemente questo tipo di atteggiamento nei confronti delle Istituzioni locali. Appare ovvio che le considerazioni sopra esposte trasportate sul ruolo della scienza, sul rapporto tra progresso e comunità, sulla partecipazione/ co-decisione delle comunità nella scelta sulle linee guida per lo sviluppo scientifico risulta fondamentale ricostruire il rapporto tra
cittadino e beni comuni. Occorre quindi cambiare strategia: considerare le comunità locali strumento di governo nelle scelte e non soltanto attori del consumo, esecutori di scelte avvenute a monte. Il concetto di capitalismo del consumo ha di fatto portato nell’uso quotidiano delle persone la tecnologia frutto di una scienza applicata che mira essenzialmente al mercato e quindi alla riproducibilità del consumo stesso. Siamo quindi in una condizione di “mercatocrazia” una sorta di oligopolio finanziario che determina le sorti degli Stati e quindi di conseguenza dei popoli. In questo quadro l’agricoltura, cioè l’attività produttiva primaria, è stata interessata dal fenomeno finanziario alle origini del processo. Infatti il rapporto tra il mercato delle commodities (come altre materie prime) ed il mercato finanziario è stato il primo ad essere sviluppato. E’ innegabile, però, che il contributo che l’agricoltura ha dato al miglioramento delle condizioni del pianeta è stato importante, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso. Lo sviluppo tecnologico in agricoltura unito alle fondamentali conquiste del miglioramento genetico, che hanno portato alla cosiddetta rivoluzione verde, hanno contrastato la denutrizione in molti paesi del mondo, riducendo la frequenza e l’entità dei conflitti sociali e limitando i fenomeni migratori. La produttività delle nuove varietà ha permesso lo sviluppo di un’agricoltura di tipo intensivo che ha migliorato il reddito di tutti gli operatori del comparto, e permesso lo sviluppo di tutta la filiera dell’agroalimentare come la conosciamo oggi. Tutto questo ha portato però anche a delle conseguenze che ora sentiamo la necessità di affrontare, per capire come utilizzare il meglio delle esperienze passate per progettare il futuro alla luce delle nuove sfide. La perdita di diversità genetica nel mondo agricolo è un fenomeno che riguarda sia l’oggetto della produzione che l’ambiente rurale nel suo insieme. La scomparsa delle siepi al fine di favorire la meccanizzazione ha portato alla scomparsa di organismi utili di controllo biologico delle avversità, la scomparsa delle rotazioni in favore della monocoltura ha portato ad una consistente riduzione di sostanza organica nel terreno e quindi della microflora e della microfauna utile. Non meno consistente è stata la
riduzione di biodiversità coltivata. Come ricorda Salvatore Ceccarelli, genetista, breeder e inventore del miglioramento genetico partecipativo, delle circa 50.000 specie vegetali
utilizzate dall’uomo come alimento, in tutto il mondo se ne coltivano attualmente circa 250. Di queste, 15 coprono il 90% delle calorie nella dieta umana, e 3 di queste (grano, riso e mais) da sole arrivano al 60%. In queste tre colture, il miglioramento genetico è stato particolarmente efficace, e il processo verso l’uniformità genetica è stato molto rapido: le varietà più coltivate al mondo di ognuna di queste specie sono strettamente imparentate tra loro e geneticamente uniformi (linee pure in grano e riso e ibridi in mais). Questa consistente erosione genetica ha causato una estrema semplificazione dell’agroecosistema che lo ha reso più vulnerabile, meno “resiliente”, cioè meno elastico ed adattabile a situazioni impreviste (improvvisi cambiamenti climatici, epidemie di parassiti). Il caso della carestia in Irlanda tra il 1847 e il 1850, dovuta alla infestazione di Phytophtora a cui l’unica varietà coltivata era estremamente suscettibile, è un monito importante da tenere presente, anche per le devastanti conseguenze in termini di vite umane (1 milione di morti per fame e 1 milione e mezzo di persone emigrate). Altro caso da ricordare, l’introduzione di una suscettibilità all’elmintosporiosi in un ibrido di mais, collegata ad un gene per un tipo di maschiosterilità (la T) presente nel genitore
femminile, che ha devastato intere coltivazioni in America negli anni ’70. Nuovi allarmi di epidemie dovute all’insorgenza di ceppi resistenti alle principali forme di resistenza monogenica introdotte nelle nuove varietà di cereali sono in corso. Si sta monitorando lo spostamento di una epidemia di ruggine del grano proveniente dal Medio Oriente dovuta all’insorgenza di una nuova razza resistente che si teme arriverà in Europa in uno-due stagioni al massimo. Negli ultimi anni, il mondo del miglioramento genetico si sta accorgendo di questi rischi, e nuove strategie sono allo studio. L’agrobiodiversità collezionata nelle banche del germoplasma e quella ancora presente nelle “tasche” del territorio sta diventando in questo senso una risorsa da utilizzare in modi molteplici. Le vecchie varietà locali non sono quindi più solo una riserva di geni utili, ma diventano in molti casi il vero materiale di partenza di un nuovo tipo di breeding che beneficia della ampia base genetica posseduta da queste varietà, frutto della selezione operata negli anni dall’ambiente e dagli agricoltori. La sapienza degli agricoltori che hanno operato questa selezione viene riconosciuta come elemento essenziale del miglioramento genetico partecipativo, che coniuga il sapere scientifico dei breeders con la gestione della diversità
operata ancestralmente dagli agricoltori stessi.
Accanto a questo utilizzo “tecnico”, c’è un altro tipo di gestione della agro biodiversità che è insieme necessario e produttivo: il recupero delle antiche varietà tradizionali come opportunità di sviluppo di un intero territorio. È necessario perché molte di queste varietà stanno scomparendo, coltivate da uno o pochi agricoltori di età avanzata, senza la possibilità che vengano tramandate ai figli, ed è nostro dovere come comunità quello di proteggere le risorse biologiche che si stanno estinguendo. È produttivo perché il recupero di queste vecchie varietà porta con sé anche il recupero di tradizioni, culture, saperi che possono contribuire a “ricostruire” l’identità di un territorio, e costituire la base per un nuovo sviluppo sostenibile di un’area, valorizzandone l’immagine e creando nuove filiere produttive. La biodiversità: bene comune per un nuovo modello innovativo di sviluppo delle comunità e per una scienza partecipata. Delle circa 50.000 specie vegetaliutilizzate dall’uomo come alimento, in tutto il mondo se ne coltivano attualmente circa 250.

 

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